Chi crea la danza sa a chi sta parlando? E di cosa sta parlando? E con quali mezzi?
Essere autori non può essere questa pratica solita in cui si continua a perpetrare nella finzione. Essere autori significa sporcarsi le mani con il presente, le idee, l’emotività, guardare alle proprie esperienze e alla propria personalità. Bisogna attraversare il confine del proprio ego e trasportarlo in scena, condividerlo con il pubblico: per questo occorre consapevolezza. Gli artisti devono avere la capacità di evolversi, trasformarsi, dichiararsi, ma senza mai rimuovere il proprio passato, di cui sono portatori sani.
Mettere in mostra l’afasia, la confusione fra professionismo e dilettantismo, la messa in scena fatta di carne ritrita, polveroni senza idee, esibizionismo saturo di concetti. Mettiamo in scena il meccanismo che afferra l’artista, eternamente preso nel tritacarne dei bandi, delle residenze, delle deadlines, dell’audience development, fra il corteggiamento del programmatore e i desideri del circuito. Mettiamo sul banco anni di studi, di sacrifici, di viaggi, di audizioni, messi da parte a favore di una “non danza”, ovvero un’arte che nega sé stessa e la sua universalità. Chiediamo a un pubblico selezionatissimo, “di addetti”, di capire e commentare, di giustificare, ma non pretendiamo che le persone comuni possano chiedere di vedere la Danza.
Esaltiamo invece le deformità violente, la bellezza estetica, ogni tipo di espressione artistica fatta con le idee, chi osa e chi tenta di dire qualcosa, anche se spesso non è gradita.